Smart working, molte aziende sono impreparate

12 Marzo 2020

L’emergenza coronavirus ha dato grande impulso allo smart working ma in molti casi i problemi di organizzazione impediscono di estenderlo alla maggioranza dei dipendenti.

Tutti a casa, ma non tutte le aziende possono convertirsi allo smart working. Anche se gli spazi di manovra ci sono: l’ultima edizione dell’Osservatorio del Politecnico di Milano – dati 2019, quindi prima della crisi da virus – censiva 570 mila smart workers in Italia, a fronte di circa 5 milioni potenziali. I decreti sull’emergenza hanno dato un ampio via libera ai datori di lavoro, autorizzandoli a disporre il telelavoro anche in assenza di accordi sindacali.

C’è voluta un’emergenza come quella scatenata sulle aziende dal Coronavirus per riportare sul tavolo delle aziende e dei manager delle Risorse Umane un tema sempre più centrale nell’organizzazione del lavoro del futuro, uno strumento che – di fronte a queste crisi quasi-pandemica – si è presentato subito come il grande strumento per risolvere la potenziale paralisi che il tradizionale modo e organizzazione del lavoro poteva provocare sulle aziende. In molti casi, dove il lavoro è stato già impostato per obiettivi e con una nuova leadership del lavoro, la paralisi non si è avuta. In moltissimi altri, la crisi ha invece dimostrato il ritardo accumulato causando il fermo delle aziende e delle attività.

L’ultima fotografia racconta che se solo un terzo dei dipendenti in Italia lavorasse secondo un progetto di smart working, ogni giorno ci sarebbero almeno 2,8 milioni di lavoratori che potrebbero usufruire di ampia flessibilità negli orari di lavoro, di un’autonomia nella scelta del luogo da dove lavorare, di disporre di strumenti digitali e tecnologici per garantire la propria prestazione professionale: tutto questo senza nessuna conseguenza sull’attività e sulle funzioni ordinarie della sua azienda.

Chi sono i lavoratori smart

Dai risultati della ricerca del Politecnico emerge che i lavoratori smart sono mediamente più soddisfatti dei colleghi che lavorano in modalità tradizionale in diversi aspetti del lavoro. Soprattutto, gli smart worker sono più soddisfatti dell’organizzazione del proprio lavoro (il 31% degli smart worker contro il 19% degli altri lavoratori), ma anche delle relazioni fra colleghi (il 31% contro il 23% degli altri) e della relazione con i loro superiori (il 25% contro il 19% degli altri).

Le piccole e medie imprese: non è solo lavorare da casa

Nelle piccole e medie la diffusione delle iniziative di smart working cresce dall’8% di progetti strutturati del 2018 al 12% dell’anno dopo, ma si continua a prediligere l’approccio informale, che cresce dal 16% al 18%, anche in relazione alla minor complessità organizzativa.

Le motivazioni che guidano l’attivazione dei progetti sono soprattutto il miglioramento del benessere organizzativo, indicato da un’impresa su due, e il miglioramento dei processi aziendali (26%). Fra le ragioni che invece inducono il 51% delle Pmi a non mostrare interesse spiccano la difficoltà di applicare questo modello alla propria realtà (68%) e la resistenza dei capi (23%).

La pubblica amministrazione va a rilento

Nonostante un raddoppio dei progetti strutturati rispetto al 2018, lo smart working nelle amministrazioni pubbliche è un fenomeno ancora insufficientemente diffuso, in cui la percezione di inapplicabilità risente molto dell’associazione tra smart working e lavoro da remoto. I progetti di smart working nel settore pubblico coinvolgono mediamente solo il 12% dei dipendenti.

Il limitato livello di comprensione del pieno significato dello smart working in questo settore e la sua sostanziale associazione a un puro strumento di conciliazione – si precisa nella relazione che accompagna l’indagine degli Osservatori del Politecnico – si deduce anche dal fatto che la selezione delle persone da coinvolgere nel progetto è avvenuta considerando principalmente le esigenze familiari, come ad esempio i rientri dalla maternità (nel 70% degli enti locali) o la presenza di disabilità o familiari a carico (57%) e, solo in seconda battuta, tenendo conto delle caratteristiche delle attività svolte dalla persona (57%). Le barriere indicate sono invece la percezione che non sia applicabile alla propria realtà (43%), la mancanza di consapevolezza dei benefici ottenibili (27%) e la presenza di attività poco digitalizzate, vincolata all’utilizzo di documenti cartacei e alla tecnologia inadeguata (21%).

Fonte: Politecnico di Milano/La Repubblica/